MEDICO DEL TERRITORIO IN EPOCA CORONAVIRUS
OGGI
HO FATTO IL MEDICO DI FAMIGLIA NELSENSO PIU' PIENO DEL TERMINE. SONO
STATO, INSIEME AD UNA BRAVISSIMA INFERMIERA DELLA COOP AUXILIUM, PER
5 LUNGHE ORE, A CASA DI UNA MIA PAZIENTE CON GRAVI PROBLEMI
NEOPLASTICI, PER PRATICARLE UNA EMOTRASFUSIONE DOMICILIARE. A 67 ANNI
E DOPO 41 DI CARRIERA MI SONO SENTITO GRATIFICATO DAL MIO LAVORO
POLICORO – Carmela, nome di fantasia, è allettata. La malattia la sta consumando. E' in nutrizione parenterale e in ossigenoterapia 24 ore su 24. Ieri ci stava lasciando per una grave insufficienza respiratoria superata dopo l'intervento del 118 e del sottoscritto arrivato subito dopo la chiamata dei familiari. Approfittando della presenza dell'ambulanza ho chiesto a marito, figli e alla stessa paziente di accedere al pronto soccorso per effettuare una trasfusione di sangue stante il suo gravissimo stato anemico. Ma ho ricevuto un secco no: “No, in ospedale no”. Un rifiuto che è sempre più frequente in epoca Coronavirus da parte anche di chi soffre di patologie gravissime. Una cosa impensabile sino a pochi mesi fa. Allora? Allora occorre organizzare la trasfusione al domicilio dell'assistita.
Così, grazie all'aiuto a distanza della dottoressa Maria Grazia Pace, palliativista della coop Auxilium che gestisce il servizio di Assistenza domiciliare integrata (Adi) in Basilicata, e a quello della dirigente del Servizio immunotrasfusionale dell'ospedale Giovanni Paolo II, Chiara Guerricchio, ecco organizzato l'importante intervento.
Stamane prove di compatibilità tra il sangue di Carmela e quello da trasfondere. Poi, attorno alle 11.30 la telefonata della bravissima e schiva, tanto da aver voluto mantenere l'anonimato in questo mio articolo, infermiera della Auxilium: “Dottore, tra venti minuti ci vediamo a casa della paziente”. Okay. E via con tuta, doppia mascherina, visiera, guanti.
Alle 11.45, dopo i controlli di routine, il sangue rosso vivo, forte, ha cominciato a scendere nelle vene di Carmela. Allettata, pallida, quasi immobile, ma contenta della nostra presenza. Con lei l'inseparabile marito-assistente. Il mio timore era per possibili reazioni avverse. Ho chiesto, perciò, alla paziente di riferirci qualsiasi sintomo: prurito, dolori, affanno, mal di testa. A pressione arteriosa, frequenza cardiaca, temperatura, pulsossimetria, ci avremmo pensato noi. Alle 14.40 la prima unità era finita. Tutto era andato bene. Via con la seconda unità. Ad un certo punto è arrivato il figlio: “Mamma sei diventata già più rossa”. La madre ha annuito, sorridente. Poi, ogni tanto, il sonno la prendeva. Carmela dormiva tranquilla. Nel frattempo si è parlato del più o del meno. Ma anche di cose più profonde: “Dottore, voglio guarire, voglio rimettermi in piedi”. Guarirai, guarirai, ma devi volerlo tu. Non ti devi arrendere. Devi combattere. Vedrai, questo sangue ti darà la forza per reagire. Spero che tutto quel che ti aspetti si verifichi. Le lacrime hanno solcato il suo volto. No, non devi pangere. Non ti devi abbattere. Devi reagire. Forza, forza, forza. Poi, attorno alle 16, la mia confessione. Carmela, è dalle 11,45 che sto qui e vi rimarrò sino alle 17. Ma non mi pesa. Anzi, sono contento di esserci. Grazie a te ho scoperto la gratificazione di fare il mio dovere di medico.
Alle 17 era tutto finito. Tutto era andato bene. Lunedì faremo un emocromo di controllo per verificare di quanto sono saliti globuli rossi, emogloblina, ematrocrito. Speriamo di avere aiutato a continuare a vivere questa donna coraggiosa. Al mio ritorno in ambulatorio ho esternato ai miei colleghi la consapevolezza di cosa significhi oggi, per me, in piena pandemia, essere medico del territorio. Un medico di famiglia che, insieme all'infermeire di famiglia, curano al loro domicicilio i pazienti fragili. A 67 anni e dopo 41 di laurea ci voleva Carmela, con la speranza disegnata sul suo volto grazie a quelle due sacche di sangue, per farmi provare la senzazione di essere stato veramente utile.
Il suo sorriso nel salutarmi è stato un grande regalo per me.
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